Ratzinger e l’università, sintesi dell’intervento del prof. Ornaghi

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(25/5/16) Di seguito, la trascrizione di ampi passaggi dell’intervento che il professor Lorenzo Ornaghi, già rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e già ministro dei Beni e delle Attività culturali, ha tenuto al terzo incontro promosso dalla Biblioteca Ratzinger, “Università senza umanistica? Gli impulsi di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI”, che si è svolto nel pomeriggio di ieri presso l’aula Benedetto XVI del Campo Santo Teutonico, in Vaticano.

 

Joseph Ratzinger è uno dei più grandi interpreti del pensiero e della cultura occidentale.

La crescente debolezza culturale dell’Europa è tra le concause dell’oggettivo declino politico e delle crescenti difficoltà economiche dell’Europa nel suo complesso. Compito dell’università è quello di contrastare e se possibile di invertire il processo di declino di cui l’Europa è vittima o autrice più o meno inconsapevole.

Rileggendo i suoi vari discorsi sul mondo accademico – forse la più completa raccolta è “Razón abierta. La idea de universidad en J. Ratzinger / Benedicto XVI” di Marcos Cantos Aparicio (BAC-UFV, 2015) –, vediamo qual è l’immagine di università che Ratzinger ha in mente: luogo di produzione della ricerca scientifica, cioè di autentica cultura. Su questo crinale corrono le sorti future dell’Europa: la cultura non è soltanto una rete di idee, ma produce fatti, orienta comportamenti, contribuisce a creare atteggiamenti individuali e collettivi.

V’è in Ratzinger la preoccupazione che la ragione, la ratio (la più importante garanzia dell’unità di svolgimento del pensiero occidentale), si rinserri in una scienza, o più spesso in una pseudo-scienza, che si occupa solo di ciò che è quantificabile, misurabile, che si rannicchi in una forma di pseudo-scienza che viene soppesata e valutata in base alla sua reale o pretesa utilità sociale.

Se vogliamo invece bloccare il rischio di declino del pensiero e della cultura occidentali, bisogna allargare la ragione, perché la ragione allargandosi riesce ad abbracciare l’intera, complessa realtà, non un suo frammento. Allargandosi la ragione incontra la fede, che costituisce la migliore garanzia dell’unità del sapere ed è la premessa indispensabile dell’umanesimo. Solo promuovendo questa fondamentale unità del conoscere dell’uomo, noi riusciamo a cogliere fino in fondo non solo la ricchezza, ma anche l’attualità dell’umanesimo. Se l’umanesimo scomparisse dall’orizzonte della ricerca scientifica, la ricerca davvero si immiserirebbe, riducendosi soltanto a ciò che è misurabile o che si ritiene socialmente utile. Se la cultura dell’Europa disseccasse le sue radici umanistiche, questa cultura sarebbe sempre più incapace nell’interpretare le tendenze di fondo delle trasformazioni in atto e nel cercare di orientarle, sarebbe soltanto succube, e persone singole, grandi collettività, popoli anziché protagonisti della storia, soggetti rilevanti del divenire storico, diventerebbero soltanto oggetti o comprimari del tutto irrilevanti. Ecco allora la necessità di una cultura e delle discipline umanistiche nella loro grande varietà, oggi.

L’umanesimo deve però saper rispondere alle sfide del tempo odierno, alle sfide che i continui risultati, gli avanzamenti reali o illusori della ricerca scientifica stanno portando. Non può rinchiudersi nella difesa di se stesso e del proprio passato. Per far questo, poiché l’umanesimo è fondato sull’antropologia cristiana, occorre che l’antropologia sappia innalzarsi al livello dei risultati della ricerca scientifica. La grande sfida dell’università, quindi, non è conservare quello che si ha già, ma fare in modo che l’umanesimo risponda anche alle sfide della ricerca scientifica, in campo medico e in tutti i campi. Questo credo che possa contribuire a spiegare l’importanza che un umanesimo continuamente coltivato, consapevole di se stesso e della propria forza, abbia dentro le università.

Le discipline umanistiche oggi, dentro le università, soffrono di diversi problemi, a iniziare da quello dei finanziamenti, a livello nazionale ed europeo, a partire dal criterio del grado di utilità sociale delle discipline.

Ma le università oggi sono in grado e soprattutto hanno davvero voglia di coltivare l’umanesimo, di dedicare il loro sforzo di ricerca ed educativo alle discipline umanistiche, oppure no?

Accanto alle difficoltà degli atenei nella promozione e nello sviluppo della ricerca scientifica in campo umanistico, e della formazione degli studenti a queste discipline, c’è una tendenza più generale che mi fa dire che il declino delle università accompagna o addirittura precede il declino dell’Europa.

Questa visione di un pessimismo quasi agostiniano, nei discorsi di Papa Ratzinger è sempre accompagnata e corretta da aspetti di grande incoraggiamento e di speranza: le università hanno non solo la forza di contribuire ad arrestare il declino della cultura e del pensiero occidentali, ma si trovano in una stagione storica che sarebbe particolarmente felice per questo lavoro.

Due impulsi da Benedetto XVI: la ragionevolezza e le minoranze creative.

La ragionevolezza impedisce che la precaria pace tra valori che si ritengono tutti uguali tra di loro e che magari sono invece contrapposti e contraddittori, sprofondi nel disordine dell’intero sistema sociale. Il secondo impulso proviene dall’espressione “minoranze creative”, che ispirate dall’umanesimo cercano di orientare i cambiamenti in corso. Non sono il residuo di vecchie maggioranze, ma – citando Görres – un elemento vitale, genuinamente umano, che ricompare quando l’ordine complessivo della società si inceppa. Allorché la forma dell’ordine si dissolve, o in modo violento, o per invecchiamento, questi elementi sopravvivono e subito dopo si ricompongono in una nuova figura. E io credo che sia molto più importante la formazione di minoranze creative, piuttosto che l’apparente, transitorio consenso delle masse.