La lettera del Papa emerito per il 50mo della Commissione Teologica Internazionale

(30/11/19) Riportiamo di seguito il testo dell'Indirizzo di saluto inviato dal Papa emerito Benedetto XVI in occasione del 50° anniversario di istituzione della Commissione Teologica Internazionale

 

Alla Commissione Teologica Internazionale, in occasione del suo cinquantesimo anniversario, vanno il mio cordiale saluto e la mia speciale benedizione.

Il Sinodo dei Vescovi come stabile istituzione nella vita della Chiesa e la Commissione Teologica Internazionale sono state donate ambedue alla Chiesa da Papa Paolo VI per fissare e continuare le esperienze del Concilio Vaticano II. Il distacco, che si era palesato al Concilio, fra la Teologia che andava dispiegandosi nel mondo e il Magistero del Papa doveva essere superato. Fin dall’inizio del secolo XX era stata costituita la Pontificia Commissione Biblica, che d’altronde nella sua forma originaria rappresentava essa stessa una parte del Magistero pontificio, mentre dopo il Concilio Vaticano II venne trasformata in un organo di consulenza teologica al servizio del Magistero, così da fornire un parere competente in materia biblica. Secondo l’ordinamento stabilito da Paolo VI, il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede è al contempo Presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Commissione Teologica Internazionale, le quali tuttavia si scelgono il loro segretario al proprio interno.

Si voleva evidenziare in tal modo che ambedue le Commissioni non sono un organo della Congregazione per la Dottrina della Fede, fatto che avrebbe potuto dissuadere certi teologi dall’accettare di divenirne membri. Il Cardinale Franjo Šeper paragonò il rapporto del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede con il Presidente delle due Commissioni alla struttura della monarchia austro-ungarica: l’imperatore d’Austria e il re d’Ungheria erano la medesima persona, mentre i due Paesi vivevano autonomamente l’uno accanto all’altro. Peraltro, la Congregazione per la Dottrina della Fede mette a disposizione delle sedute della Commissione e dei partecipanti ad esse le sue possibilità pratiche e, a tal fine, ha creato la figura del Segretario Aggiunto, che di volta in volta assicura i sussidi necessari. 

Senza dubbio le attese legate alla neocostituita Commissione Teologica Internazionale, in un primo momento, sono state maggiori di quanto si è potuto realizzare nell’arco di una storia lunga mezzo secolo. Dal primo periodo di Sessioni della Commissione scaturì un’opera, Le ministère sacerdotal (10 ottobre 1970), che fu pubblicata nel 1971 dalla Casa editrice Du Cerf di Parigi ed era pensata come sussidio per il primo grande raduno del Sinodo dei Vescovi. Per il Sinodo stesso, la Commissione Teologica nominò un gruppo specifico di teologi che, quali consultori, rimasero a disposizione nella prima sessione del Sinodo dei Vescovi e, grazie a uno straordinario lavoro, fecero sì che il Sinodo potesse immediatamente pubblicare un documento sul sacerdozio da esso realizzato. Da allora, questo non è più avvenuto. Ben presto andò invece sviluppandosi la tipologia dell’Esortazione post-sinodale, la quale non è certamente un documento del Sinodo ma un documento magisteriale pontificio che riprende nel modo più ampio possibile le affermazioni del Sinodo e fa in modo così che, insieme al Papa, sia comunque l’episcopato mondiale a parlare.[1]

Personalmente, mi è rimasto particolarmente impresso il primo quinquennio della Commissione Teologica Internazionale. Doveva essere definito l’orientamento di fondo e la modalità essenziale di lavoro della Commissione, stabilendo così in che direzione, in ultima analisi, avrebbe dovuto essere interpretato il Vaticano II.

Accanto alle grandi figure del Concilio – Henri de Lubac, Yves Congar, Karl Rahner, Jorge Medina Estévez, Philippe Delhaye, Gerard Philips, Carlo Colombo di Milano, considerato il teologo personale di Paolo VI, e padre Cipriano Vagaggini –, facevano parte della Commissione teologi importanti che curiosamente al Concilio non avevano trovato posto.

Tra essi, a parte Hans Urs von Balthasar, va annoverato soprattutto Louis Bouyer che, come convertito e monaco, era una personalità estremamente caparbia, e per la sua noncurante franchezza non piaceva a molti Vescovi, ma che fu un grande collaboratore con un’incredibile vastità di sapere. Entrò poi in scena padre Marie-Joseph Le Guillou, che aveva lavorato intere notti, soprattutto durante il Sinodo dei Vescovi, rendendo così possibile in sostanza il documento del Sinodo, con questo modo radicale di servire; purtroppo si prese ben presto il morbo di Parkinson, congedandosi così precocemente da questa vita e dal lavoro teologico. Rudolf Schnackenburg incarnava l’esegesi tedesca, con tutta la pretesa che la caratterizzava. Come una sorta di polo opposto, vennero assunti volentieri nella Commissione André Feuillet e anche Heinz Schürmann di Erfurt, l’esegesi dei quali era di taglio più spirituale. Infine devo menzionare anche il prof. Johannes Feiner di Coira che, come rappresentante del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, ricopriva un ruolo particolare nella Commissione. La questione se la Chiesa cattolica avesse dovuto aderire al Consiglio ecumenico delle Chiese di Ginevra, come un membro normale a tutti gli effetti, divenne un punto decisivo sulla direzione che la Chiesa avrebbe dovuto imboccare all’indomani del Concilio. Dopo uno scontro drammatico, sulla questione si decise alla fine negativamente, cosa che indusse Feiner e Rahner ad abbandonare la Commissione.

Nella Commissione Teologica del secondo quinquennio fecero la loro comparsa figure nuove: due giovani italiani, Carlo Caffarra e padre Raniero Cantalamessa, conferirono alla Teologia di lingua italiana un nuovo peso. La Teologia di lingua tedesca, a parte i membri già presenti, con il gesuita padre Otto Semmelroth, fu rafforzata grazie a un teologo conciliare la cui capacità di formulare velocemente testi per le diverse esigenze si rivelò tanto utile alla Commissione quanto lo era stata durante il Concilio. Insieme a lui, salì alla ribalta, con Karl Lehmann, una nuova generazione, la cui concezione cominciò ad affermarsi chiaramente nei documenti ora prodotti.

Ma non è mia intenzione proseguire con la presentazione delle personalità che operarono nella Commissione Teologica, quanto offrire alcune riflessioni sui temi scelti. All’inizio sono state affrontate le questioni sul rapporto fra Magistero e Teologia, sulle quali si deve sempre necessariamente continuare a riflettere. Quello che la Commissione ha detto su questo tema nel corso dell’ultimo mezzo secolo merita di essere nuovamente ascoltato e meditato.

Sotto la guida di Lehmann venne analizzata anche la questione fondamentale di Gaudium et spes, vale a dire la problematica di progresso umano e salvezza cristiana. In quest’ambito emerse inevitabilmente anche il tema della Teologia della liberazione, che in quel momento non rappresentava affatto un problema solo di tipo teorico ma determinava molto concretamente, e minacciava, anche la vita della Chiesa in Sudamerica. La passione che animava i teologi era pari al peso concreto, anche politico, della questione.[2]

Accanto alle questioni relative al rapporto fra il Magistero della Chiesa e l’insegnamento della Teologia, uno dei principali ambiti di lavoro della Commissione Teologica è sempre stato il problema della Teologia morale. Forse è significativo che, al principio, non ci sia stata la voce dei rappresentanti della Teologia morale, ma quella degli esperti di esegesi e dogmatica: Heinz Schürmann e Hans Urs von Balthasar, nel 1974, aprirono con le loro tesi la discussione, che poi proseguì nel 1977 con il dibattito sul Sacramento del matrimonio. La contrapposizione dei fronti e la mancanza di un comune orientamento di fondo, di cui oggi soffriamo ancora quanto allora, in quel momento mi divenne chiara in modo inaudito: da una parte stava il teologo morale americano prof. William May, padre di molti figli, che veniva sempre da noi con sua moglie e sosteneva la concezione antica più rigorosa. Due volte egli dovette sperimentare il respingimento all’unanimità della sua proposta, fatto altrimenti mai verificatosi. Scoppiò in lacrime, e io stesso non potei consolarlo efficacemente. Vicino a lui stava, per quel che ricordo, il prof. John Finnis, che insegnava negli Stati Uniti e che espresse la medesima impostazione e il medesimo concetto in modo nuovo. Fu preso sul serio dal punto di vista teologico, e tuttavia neppure lui riuscì a raggiungere alcun consenso. Nel quinto quinquennio, dalla scuola del prof. Tadeusz Styczen – l’amico di Papa Giovanni Paolo II – giunse il prof. Andrzej Szoztek, un intelligente e promettente rappresentante della posizione classica, il quale comunque non riuscì a creare un consenso. Infine, padre Servais Pinckaers tentò di sviluppare a partire da san Tommaso un’etica delle virtù che mi parve molto ragionevole e convincente, e tuttavia anch’essa non riuscì a raggiungere alcun consenso.

Quanto difficile sia la situazione lo si può evincere anche dal fatto che Giovanni Paolo II, al quale stava particolarmente a cuore la Teologia morale, alla fine decise di rimandare la stesura definitiva della sua Enciclica morale Veritatis splendor, volendo attendere prima di tutto il Catechismo della Chiesa cattolica. Pubblicò la sua Enciclica solo il 6 agosto 1993, trovando ancora per essa nuovi collaboratori. Penso che la Commissione Teologica debba continuare a tenere presente il problema e debba fondamentalmente proseguire nello sforzo di ricercare un consenso.

Vorrei infine mettere in rilievo ancora un aspetto del lavoro della Commissione. In essa si è potuta sentire sempre più e sempre più forte anche la voce delle giovani Chiese riguardo alla seguente questione: fino a che punto esse sono vincolate alla tradizione occidentale e fino a che punto le altre culture possono determinare una nuova cultura teologica? Furono soprattutto i teologi provenienti dall’Africa, da un lato, e dall’India, dall’altro, a sollevare la questione, senza che sino a quel momento essa fosse stata propriamente tematizzata. E ugualmente, non è stato tematizzato sinora il dialogo con le altre grandi religioni del mondo.[3]

Alla fine dobbiamo esprimere una parola di grande gratitudine, pur con tutte le insufficienze proprie dell’umano cercare e interrogarsi. La Commissione Teologica Internazionale, nonostante tutti gli sforzi, non ha potuto raggiungere un’unità morale della Teologia e dei teologi nel mondo. Chi si attendeva questo, nutriva aspettative sbagliate sulle possibilità di un simile lavoro. E tuttavia quella della Commissione è comunque divenuta una voce ascoltata, che in qualche modo indica l’orientamento di fondo che un serio sforzo teologico deve seguire in questo momento storico. Al ringraziamento per quanto compiuto in mezzo secolo, si unisce la speranza di un ulteriore fruttuoso lavoro, nel quale l’unica fede possa portare anche a un comune orientamento del pensiero e del parlare di Dio e della sua Rivelazione.

Per quel che riguarda me personalmente, il lavoro nella Commissione Teologica Internazionale mi ha donato la gioia dell’incontro con altre lingue e forme di pensiero. Soprattutto, però, esso è stato per me continua occasione di umiltà, che vede i limiti di ciò che ci è proprio e apre così la strada alla Verità più grande.

Solo l’umiltà può trovare la Verità e la Verità a sua volta è il fondamento dell’Amore, dal quale ultimamente tutto dipende.

Città del Vaticano, Monastero “Mater Ecclesiae”, 22 ottobre 2019

Benedetto XVI

Papa Emerito

 

[1] Un’eccezione è costituita in certo qual modo dal documento sul diaconato pubblicato nel 2003, elaborato su incarico della Congregazione per la Dottrina della Fede e che doveva fornire un orientamento riguardo alla questione del Diaconato, in particolare riguardo alla questione se questo ministero sacramentale potesse essere conferito anche alle donne. Il documento, elaborato con grande cura, non giunse a un risultato univoco riguardo a un eventuale Diaconato alle donne. Si decise di sottoporre la questione ai Patriarchi delle Chiese orientali, dei quali tuttavia solo molto pochi risposero. Si vide che la questione posta, in quanto tale, era di difficile comprensione per la tradizione della Chiesa orientale. Così quest’ampio studio si concludeva con l’asserzione che la prospettiva puramente storica non consentiva di giungere ad alcuna certezza definitiva. In ultima analisi, la questione doveva essere decisa sul piano dottrinale. Cfr. Commissione Teologica Internazionale, Documenti 1969-2004, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 22010, 651-766.

[2] Mi sia consentito qui un piccolo ricordo personale. Il mio amico padre Juan Alfaro sj, che alla Gregoriana insegnava soprattutto la dottrina della grazia, per ragioni a me totalmente incomprensibili negli anni, era divenuto un appassionato sostenitore della Teologia della liberazione. Non volevo perdere l’amicizia con lui e così quella fu l’unica volta nell’intero periodo della mia appartenenza alla Commissione che marinai la Sessione Plenaria.

[3] Vorrei qui accennare ancora a un curioso caso particolare. Un gesuita giapponese, padre Shun’ichi Takayanagi, aveva talmente familiarizzato con il pensiero del teologo luterano tedesco Gerhard Ebeling da argomentare completamente sulla base del suo pensiero e del suo linguaggio. Ma nessuno nella Commissione Teologica conosceva Ebeling così bene da permettere che si potesse sviluppare un dialogo fruttuoso, cosicché l’erudito gesuita giapponese abbandonò la Commissione perché il suo linguaggio e il suo pensiero in essa non riuscivano a trovare posto.